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Angiolo Tommasi
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Angiolo Tommasi
Angiolo Tommasi fece i primi suoi studi in quella città sotto il professor Betti, indi incitato da questi, si recò a Firenze ove frequentò per due anni quell’Accademia di Belle Arti, dalla quale si allontanò consigliato da uno dei Professori stessi di detta Accademia. Prese quindi a lavorare da sè solo, guidato dal pittore Silvestro Lega, dandosi alla riproduzione assoluta del vero, e cercando i suoi soggetti quasi sempre nei costumi campagnuoli.
I primi lavori esposti furono due piccoli “Studi di paese”, che egli mandò alla Promotrice di Firenze, indi: “Via Torretta a San Salvi”; “Lo scoglio della Madonna ad Antignano”; “Una testa di vecchio”, esposti alla medesime Mostra, nel 1882; e l’anno seguente “Pensiero”; “Il desinare di Bussotto”; “Sull’Ema”; “Nel podere”; “Sull’Arno”; “Ricomincia a piovere”.
Dipinse quindi il quadro che intitolò semplicemente: “Studio dal vero”, rappresentante il momento della elevazione durante la Messa in una chiesa di campagna, quadro che incontrò molto le simpatie del pubblico e specialmente degli intelligenti, che procacciò subito un chiaro nome in arte al giovane autore, e del quale si occuparono vari periodici di allora e fu acquistato dal cav. Samama di Livorno.
Espose quindi i quadri: “Il fumatore”; “Le lavandaie nell’Ema”; e il “Ritratto all’aria aperta di sua sorella”, una figura grande al vero, che ebbe meritati encomi, più le tele: “Sull’aia”; “La nonna”, acquistata dal signor Mombelli di Livorno; “Il Gabbro”, studio di paese, e una “Mezza figura di Ciociaro”.
A Livorno, nel 1886, espose ancora lo “Studio dal vero”, che venne allora venduto; e l’anno seguente, a Firenze, i quadri: “Studio di vecchia”; e il “Ritorno dalla Fonte”, entrambi venduti. A Venezia mandò: “Il riposo delle Gabbrigiane”, che ebbe pure lieta accoglienza, e fu anzi scelto dapprima fra quelli che dovevano essere acquistati per conto del Governo, ma poi, per essere stato cambiato il giurì, non lo fu più, e venne invece venduto ad un negoziante di Vienna.
Dopo questa tela importante, fece: “Mattina d’estate”, bella marina, che esposta a Parigi, nel 1889, riportò la medaglia di bronzo, e presentemente figurerà alla Esposizione di Chicago. Alla Mostra tenuta quest’anno alla Promotrice di Firenze, il Tommasi ha esposto le tele: “Il pescatore di rezzaglio”; “Dopo il libeccio”; “Marina” e “Ultime vangate”; e questa ultima tela fu giudicata la migliore fra tutte quelle esposte alla detta Mostra, e riportò il premio Firenze, di Lire 2000, conferitogli alla unanimità di voti.
L’artista è inoltre valente anche nei ritratti; e tra i migliori da lui eseguiti, ricordiamo quelli del “signor Samama di Livorno”, del “signor Malenchini”, del “signor De Witt”, del noto costruttore navale “ingegnere Orlando” e del “comm. Costella”, Sindaco di Livorno. Riportiamo ora qui sotto i giudizi della stampa su alcune opere del Tommasi. ‘La Nazione’, di Firenze, a proposito del suo quadro: “Studio dal vero”, riportava quanto appresso: «’A tout seigneur, tout honneur’.
Angiolo Tommasi si presentò all’Esposizione del 1883 con alcuni semplici paesaggi. Già si scorgevano in quelle prime pagine tutte le attitudini di un artista coscienzioso e geniale, che vedeva il vero, senza miopie e senza strabismi: lieto e baldo della sua giovinezza: di uno stile morbido, delicato; gradevole, ma senza svenevolezze. Nel 1885 espose una gran “Figura di donna”, su un fondo di piante grasse, di fiori, di paese.
Era già un passo in avanti: appariva artista che non cade in estasi dinanzi alle prime pennellate, che ha dato: che non s’inebria delle prime lodi, reboanti intorno a lui, che ha nel suo ingegno una forza, la quale lo spinge sempre più oltre, e, a seconda che s’innalzò vede allargarsi gli orizzonti dell’arte, e s’incuora a vincere le maggiori difficoltà, che lo studio quotidiano palesa ai veri artisti, sempre nuove difficoltà, neppur sognate dagli altri cui è facil sapienza l’orgoglio e si paion grandi nel guardarsi allo specchio dell’invidia.
Quest’anno il Tommasi ha mandato all’Esposizione un quadro di gran dimensione, intitolato: “Studio dal vero”. Siamo dinanzi a una chiesa di campagna, in giorno di festa: i contadini, rimpulizziti, che non hanno potuto trovar posto dentro la chiesa, si accalcano, come è loro costume, fuori della porta: è il momento solenne di una cerimonia; alcuni dei contadini sono prosternati, in ginocchio, altri stanno a testa china, riverenti, tutti raccolti in sè.
Le figure son molte. Il quadro vi attira subito a sè per ciò che vi è di spontaneo, di semplice, di largo, di ben pensato. Il motivo è studiato, anzi sentito; quindi non siete offesi nè da lambiccature, nè da contorsioni, nè da sforzi petulanti. Non ci è caricatura, nè ostentazione; non ciarlatanismo di fatture bislacche, per richiamare a sè la folla; non ricerca di mezzucci; nulla di teatrale: il naturale osservato con calma, senza febbri e senza sgomenti, da un uomo sicuro di sè.
L’artista è andato diritto al suo fine, e felicemente, senza schivare, ciò che era difficile; senza lasciarsi sopraffare o distrarre da malagevolezze, o impedimenti. Certo, in un sì bel lavoro si potrà riscontrare qualche difetto, ma la critica, che vorrà atteggiarsi a più sottile e spigolista dovrà innanzi tutto far capitale di una cosa, della modestia spiegata dal giovane artista.
Egli non ha dato al suo quadro, benchè si importante, un titolo pomposo; lo ha chiamato semplicemente: “Studio dal vero” e con ciò ha provato l’eccellenza del suo ingegno, che non è assolutamente contento de’ tentativi, compiuti sin’ora, e si sente capace di librarsi a voli più alti, di cimentarsi in opere anche più ardue, di avvicinarsi a ben altra perfezione.
Ora l’incontentabilità è la dote prima degli ingegni forti; i mediocri passano il tempo a indirizzare a sè stessi le più immeritate quanto sincere congratulazioni. Come studio, il lavoro del Tommasi è stupendo: ad essere un quadro perfetto credo gli noccia una certa monotonia di esecuzione, alcune sproporzioni nel disegno, ed egli saprà insegnare a chiunque se tutte le teste, che si vedono nel suo quadro, dalle più grandi alle più piccole siano di misura rispondente a ogni rigida regola di prospettiva. Forse il fondo del quadro, la massa della Chiesa sono un po’ dipinti alla brava, ma non deve caderci dall’animo che l’autore ha inteso fare uno studio. Non ci ha dato di più, perchè più non ha voluto.
Il giovane Angelo Tommasi inspira già ai meno dediti alle ammirazioni un profondo rispetto. Sentite aver dinanzi a voi un’anima, e un’anima che ha qualche cosa d’importante da dire. Ci è nel pittore un uomo che pensa, e nel suo lavoro un concetto». E nel giornale ‘L’Elettrico’, sempre a proposito di detto quadro, troviamo: «Sono lieto di poter constatare che nella presente esposizione domina assai meno che nelle precedenti la vanità dell’applauso, ed in sua vece l’amore sincero, anche un po’ timido, del vero sotto tutti i suoi aspetti; e dirò subito che tra quelli che più seriamente e fortemente si presentano è Angiolo Tommasi col suo “Studio dal vero”.
Nel quale bisogna anzi tutto tener conto all’autore di una difficoltà non piccola, che di per sè sola basta ad onorare l’artista che arditamente se l’è proposta: il far solido, cioè, con mezzi semplicissimi, quali sono figure vestite di grigio in ambiente grigio. E tale difficoltà e bene superata, perchè quelle figure grandi al vero sono solidamente costruite e dipinte, ad eccezione solo di una testa bianca di vecchio, e per di più variate fra loro; non uniformi.
E quei contadini, veri contadini, sono così bene all’aria aperta, da poter a prima vista abbracciare solo l’insieme del gruppo, senza che l’uno trionfi troppo decisamente sull’altro; come appunto succede a chi osserva tali scene sul vero, spassionatamente e non collo scopo di cavarne una tela da teatro. Vi è insomma anzitutto il ‘totale’. Tutto è sobrietà in questo studio; esso è la sua forza, e appunto per ciò fornita».
In merito al quadro: “Ultime vangate” riportiamo invece il giudizio da noi dato, visitando lo studio di questo artista, prima che il quadro fosse esposto, e quello espresso dopo l’apertura della Mostra: «Angiolo Tommasi presenta un quadro di “Contadini che vangano”; robusto, vigoroso, potente. Questa tela piacerà certo; piacerà per la fedele riproduzione del vero così nell’insieme, come nei particolari, piacerà perchè si vede da essa che l’artista vive della vita dei suoi modelli, perchè si prova un sentimento di stanchezza e di pietà, osservando quella povera gente condannata a sì rude lavoro; piacerà per la giusta intonazione e per le altre eccellenti qualità pittoriche che in essa si riscontrano…
Il vasto quadro di Angiolo Tommasi, non ha invece il sentimento che anima le tele del Cannicci ma s’impone tosto, appena posatovi l’occhio, per la evidenza grande della modellatura, per la violenza della tecnica, per la verità dell’insieme. Intonazione, ambiente, luce, costruzione tutto è buono. Tre contadine e due contadini danno le ultime vangate alla terra, volgendo le spalle all’osservatore, cui sta dinanzi una vaga distesa di campi, immersi già nella calma luce della sera, che il sole è tramontato, e i camini del villaggio vicino annunziano fumando l’ora della cena.
Le cinque figure hanno vita, movimento, energia, il paese si apre innanzi a voi, vero, ampio, spazioso, e l’occhio si spinge per lungo tratto e si perde verso l’ultima linea dell’orizzonte lontano. La Commissione aggiudicatrice del premio di Lire 2000, lo accordò a quest’opera e fece bene. Nessuno io credo troverà a ridire poichè è questa indubbiamente la tela più importante di tutta la Mostra».
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