OPERA NON DISPONIBILE
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Sigismondo Meyer von Schauensee

(San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno) 1884 - Roma ?)

Ritratto femminile

Misure: 70 x 55 cm

Tecnica: olio su tela

Firmato in basso a sinistra

Questo Ritratto femminile si inserisce nell’ampia produzione che Sigismondo Meyer ha dedicato alla rappresentazione muliebre. Il pittore ha fatto del ritratto il suo genere prediletto, preservando i modelli dei maestri antichi come Velázquez e della coeva ritrattistica di scuola inglese. Un’armoniosa scelta cromatica e un ductus sciolto e ricercato al contempo contraddistinguono soprattutto i ritratti degli anni Dieci, elogiati su “Emporium” da Arturo Lancellotti, che scrive di Meyer: «è giunto al ritratto dopo una lunga e tenace preparazione: egli ha studiato i nostri antichi fino a ricopiarli con tanta abilità […]. Alla solidità fondamentale antica ha sovrapposta una palese derivazione dagli inglesi contemporanei e specialmente da Sargent»[1].

La preponderante linea inglese della produzione di Meyer, in cui il ritratto mondano appare affascinante e seducente e impostato su eleganti note cromatiche, segue la tendenza in voga tra gli artisti italiani nei primi decenni del Novecento, profondamente influenzati dalla Sala del Ritratto Moderno che, alla Biennale di Venezia del 1903, aveva ospitato James Abbott McNeill Whistler (1834-1903), John Singer Sargent (1856-1925) e John Lavery (1856-1941). Ma alcuni particolari compositivi fanno luce su un’altra fonte della poetica di Meyer, rintracciabile nel Ritratto femminile più dei modelli inglesi citati e da ricercare nei ritratti di donna del pittore ungherese Philip Alexius de László (1869-1937), vissuto per gran parte della sua vita in Inghilterra, famoso e desiderato ritrattista dell’aristocrazia europea e assiduo frequentatore delle città italiane. Verosimilmente conosciuto da Meyer alle Biennali di Venezia o alla Mostra Internazionale di Roma del 1911, ne risulta affine soprattutto nella gestione delle pose e nella funzione avvolgente dei vaporosi panneggi degli abiti. Seppur attenuate con il passare degli anni, queste corrispondenze persistono in alcuni dettagli del ritratto Ritratto femminile di Meyer, databile tra gli anni Venti e Trenta. Un diretto confronto tra quest’opera e i ritratti di Philip Alexius de László si trova, ad esempio, nell’elegante figura della Marquise de Castellane del 1922: lo stesso profilo, lo stesso gentile sguardo assorto e il morbido panneggio che ricade verso il petto, assicurato dal naturale gesto della mano. Le delicate striature bianche che si armonizzano con il rosa dello scialle della fanciulla derivano dalle impalpabili stoffe, cifra caratteristica del pittore ungherese, sebbene Meyer le rielabori attraverso una resa più intimista e meno manierata.

La ragazza dalla corta capigliatura, rivolta verso lo spettatore, ci appare velata da un’aura di recondito fascino senza tempo. Note simboliche ed evocative, accompagnate da un cromatismo levigato ed equilibrato, eccezion fatta per l’accento del panneggio, collocano la tela agli anni Venti o all’inizio del decennio successivo, quando Meyer si lascia ancor di più influenzare dalle serene euritmie della pittura antica, di matrice pierfrancescana, riportate in auge dalle tendenze di ritorno all’ordine. Il Ritratto femminile si trova a metà strada tra la classica ponderazione del Ritratto della signora Pellini, esposto alla II Biennale romana del 1924 e il Pensiero dominante, datato ai primi anni Trenta e conservato presso la Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno. Con entrambi i dipinti, il Ritratto in questione condivide lo sfondo naturalistico pervaso per gran parte da un cielo solcato da poche nuvole rarefatte, aspetto che lo separa decisamente dai ritratti dei decenni precedenti, quasi tutti su fondo scuro e modulati su “sinfonie cromatiche” e sulla luce densa di materia, come ben si nota dalla Contessa Manassei del 1916 o dalla Miretta del 1918 (Roma, Galleria d’Arte Moderna). Questa gestione corposa del colore scompare quasi del tutto nella figura femminile qui ritratta, dove appare invece una pittura più pura e pulita, un’«austera scienza di segno [che] s’abbevera alle fonti della vecchia pittura tedesca»[2].

[1] A. Lancellotti, L’Esposizione d’Arte di Roma. La 85ma Mostra degli “Amatori e Cultori”, “Emporium”, XLIII, 1916, 258, pp. 475-476.

[2] Aldo Foratti, Alla XIV Biennale di Venezia. Ricordi ed impressioni, “Cronache d’Arte”, I, 1924, 4, p. 216.

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