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Pittore
Domenico Induno
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Domenico Induno
Nato dal popolo e altero di venirne, acuto ma indulgente osservatore, descrittore che vorrei dire un po’ manzoniano, ritraendo un’umile verità profondamente sentita, espresse la patetica poesia della esistenza del popolo quale la poteva comprendere il suo animo semplice e buono.
Facendo come sentiva, seguendo cioè il precetto del maestro suo, il classico Sabatelli, e suscitando la pittura di genere italiana, egli venne a fare «de l’art vivant» secondo il dogma del verista Courbet; i suoi quadri gli costavano amorose meditazioni e spasimi del cervello e persino vere lagrime, tanto che, affievolitosi il suo fisico, la sua produzione si ridusse ancor avanti la vecchiezza.
Al Monte di Pietà, Pane e lacrime (acquistato dall’Hayez), Al cader delle foglie, Una lezione della nonna, L’abbandonata, furono i suoi temi sentimentali; La questua, (che richiamava le sottoscrizioni mazziniane segrete), Povera Venezia ? erano affermazioni del cospiratore del 1848 che aveva dovuto esiliare nella Svizzera e a Firenze sino al 1859.
Il quadro Vittorio Emanuele che pone la prima pietra della Galleria intitolata al suo nome, una tela alla quale il pittore lavorò maggior tempo dei pochi mesi occorsi per la costruzione del capolavoro mengoniano, piacque or fa più di mezzo secolo e può piacere ancora per la spontanea ingegnosità colla quale vi sono superate le difficoltà della composizione così vera e pure non fotografica, e come album di ritratti di evidente esattezza delle autorità e notabilità intervenute alla cerimonia e che persuade pur mancando di quel complessivo risultato decorativo col quale si vorrebbe giustificare la retorica di tante vaste machines della pittura commemorativa ufficiale contemporanea.
L’altro suo gran quadro, dipinto nel 60, ripetuto con varianti, è L’arrivo del bollettino della Pace di Villafranca il cui titolo stesso confessa candidamente l’errore originale come quadro storico, è infatti soltanto una illustrazione di attualità, un gruppo ingenuamente scucito di tipiche figure e di teste, espressive in diverso modo dell’improvviso penoso sentimento di delusione diffusosi all’annuncio della cessazione della guerra liberatrice.
Ma quale simpatica opera d’arte, per la attraente bellezza dei particolari pittorici, e come la vigorosa personalità dell’Induno vi appare intiera e viva, antipodica all’à peu près che imperversa e imperversa.. anche in pittura? Egli fu il solo pittore lombardo che non risenti della presenza in Milano del Morelli del quale si disse che restituì ai lombardi quella rivoluzione che essi avevano portata a Napoli; la risentì invece, il fratello Gerolamo (minore non soltanto di anni) che seppe far fiorire le sue tele di vivaci colori piacenti che il pubblico preferiva alla severa pittura di Domenico del quale si può anzi dire, come del periodo migliore dell’arte di Edgar Degas, il n’a jamais cherché à faire de la peinture agréable, il lui suffisat d’être vrai et d’attester un mètier habile et sur».
La sua pittura, come la sua arte (che oggi si definirebbe statica) sembrano richiamare inconsapevolmente il sano positivismo lombardo, la sua pittura, poi, di fermo disegnatore, per l’intonazione e l’esecuzione (al paragone di quella del Cremona, del Ranzoni, del Piccio) può apparire come della prosa, ma è la salda, nitida prosa di un maestro ammirabile.
Una mostra postuma delle sue opere, tenuta con quelle del fratello Gerolamo nel ’91, non potè esercitare molta attrazione sugli artisti e sul pubblico solo perché erano quelli gli anni nei quali si avviava una più larga comprensione e la definitiva ammirazione per l’affascinante opera di Tranquillo Cremona, come, in Torino, per quella di Antonio Fontanesi.
Un po’ dimenticato nella sua stessa Milano, pressoché ignorato fuori, o confuso col fratello, questa piccola sua mostra – dove bozzetti e quadri si spiegano, pittoricamente, a vicenda – vorrebbe additarlo come un esempio.
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