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Pittore
Ernesto Bellandi
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Ernesto Bellandi
Pittore decoratore toscano, nato in Firenze nel gennaio del 1842.
Fece gli studii all’Accademia di Belle Arti; incominciò per vivere, a copiare quadri antichi, poi domandò un umile posto di scrivano in un uffizio comunale; quindi concorse ad un posto di maestro ad Urbino; ma, tentato da un ornatista a dedicarsi all’arte decorativa, incominciò a lavorare per la casa di un tale che pagava, quando pagava, in biglietti che si fabbricava da sè; scoperto il mariuolo fu tradotto in carcere, e il Bellandi rimase senza compenso del suo primo lavoro decorativo; quando la capitale venne trasferita da Torino a Firenze, egli ebbe molte ordinazioni, ma i miseri compensi l’obbligarono per qualche anno a lavorare di furia e di maniera; le sfingi, i satirelli, le ninfe abbondavano; i colleghi ornatisti mormoravano; qualche pittore lodava alcune buone qualità dell’artista; ma egli si corresse tosto da sè, appena qualche maggior agiatezza gli permise di riprendere gli studi intermessi; e venne sempre perfezionando l’opera sua, eseguendo pure alcuni quadretti in piccole figure per tener la mano esercitata, in lavori delicati; e que’ lavori venduti a negozianti trovarono tosto compratori tra i forestieri.
Negli anni 1871-72, il Bellandi dipinse alcune lunette alla villa Oppenheim, dove lavorarono pure altri artisti di gran merito chiamati di fuori; quindi si recò, invitato, a Bastia, nella Corsica, ove dipinse, oltre alcuni piccoli soggetti, una grande allegoria che ebbe incontro.
Nell’estate dell’anno 1873, si recò nella bassa Austria, dove dipinse a buon fresco sei grandi quadri; ma egli stesso teme che, per la qualità della rena salmastrosa del luogo da lui adoperata, a quest’ora l’opera sua sia già molto danneggiata dalle intemperie, se non distrutta.
Nell’anno 1875 il Bellandi dipinse in Roma, a tempera, l'”Incontro di Giulio Cesare e Cleopatra”, fra tutti i suoi lavori quello di cui l’autore maggiormente si compiace.
Tornato, nel 1877, a Bastia, sulla volta del nuovo teatro dipinse un fondo d’aria immenso con una fuga di figure volanti.
Per la villa d’una celebre cantante dipinse un fregio con circa venticinque figure di scorcio, che posano sulla cornice d’imposta intorno alla sala; ogni figura rappresenta personaggi di opere melodrammatiche di tutti i maestri più celebri.
Nell’anno 1880, il Bellandi fu a Catania per decorare la cupola centrale della volta del Teatro comunale Bellini, sopra la quale rappresentò il grande maestro in piedi, vicino al piano, con la penna nella destra, alcuni fogli di musica nella sinistra, circondato dalle muse.
La macchia oscura del protagonista, stacca sopra veli e manti colorati, ne’ quali stanno avvolte le muse.
Nel fregio circostante il Bellandi rappresentò il soggetto delle principali opere del Bellini e alcuni gruppi di putti.
Intanto ch’egli lavorava, sorsero ne’ giornali polemiche intorno a quel lavoro, che gli cagionarono angustia ed imbarazzo; ma, in seguito ad una inchiesta, il valoroso artista ottenne piena ed intera soddisfazione.
Nell’anno 1884 dipinse la volta di una gran sala.
In alcune cartelle fu scritto il verso dell’Ariosto:
«Le donne i cavalier l’armi, gli amori;» sull’aria campeggiano molte figure in varii gruppi.
Sul fregio intorno ai cavalieri in costume da torneo si veggono menestrelli, cortigiani, una strega ecc.; nei quadri sopra le porte sono figurate alcune donne romantiche, come la Lucia del Manzoni, la Tecla di Schiller, l’Esmeralda di Hugo, l’Ines di Camoens, ardua composizione.
Tentò più volte figure viste dal sotto in su, e ultimamente in un quadro lungo sette metri, sui tre lati della cornice posò varie figure nel costume greco antico, che fanno la danza Delia.
Nella cappella della famiglia dei fratelli Orlando di Livorno, il Bellandi doveva dipingere un soggetto civile.
Ci voleva qualche cosa che stesse in relazione coi meriti de’ committenti, che fanno la carità in modo nuovo, dando lavoro.
Ad evitare il costume moderno che disdiceva allo stile originale della architettura, pose sul davanti due grandi figure allegoriche, e, in distanza, la costruzione di una nave in ferro e il brulichio dei lavoratori che illustrano il motto operaio: “In labore virtus”.
Il Bellandi è critico severo dell’opera propria: ma deve pur ripetere dalla propria perseveranza, dallo zelo e dal valore esercitato nell’opera indefessa e progrediente di venticinque anni il credito di cui gode e che fece sempre ricercare il suo lavoro.
Egli deplora soltanto che l’arte decorativa non riceva in Italia un più ampio svolgimento che le permetta di uscire da quelle regole convenzionali nelle quali troppo spesso si trova impedita.
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