(Copenaghen 1820 - 1908)
Gentiluomo inglese osserva una novena
Misure: cm. 49 x 60,5
Tecnica: Olio su tela
Il misterioso dipinto in oggetto è un olio su tela di tipiche dimensioni da cavalletto, non finito in varie parti nell’area sinistra della superficie. Il contesto narrativo romano è evidente: lo scorcio del terzo e quarto ordine del Colosseo, che in assenza di maggiori riferimenti presumiamo ripreso da un loggiato sopraelevato nel complesso della basilica di Santa Francesca Romana (sebbene non sia da escludersi un inserimento artificioso), il gruppo dei tre pifferari, i costumi loro e della donna in ginocchio sono tutti segnali che lasciano in tal senso pochi dubbi.
Meno coerente appare invece la distinta figura isolata in una zona tonale lievemente in ombra nella parte destra. La presenza dell’edicola, che avrebbe probabilmente ospitato un’icona mariana nella redazione finale, autorizza a circoscrivere la scena all’interno di una precisa pratica devozionale tipica della facet sociale romana, ossia quella delle cosiddette “novene”.
Queste erano delle performance musicali con finalità votive tradizionalmente attribuite alle popolazioni migratorie che regolarmente affluivano dalle montagne dell’Abruzzo e del Lazio orientale in specifici momenti dell’anno. Fra di essi erano pastori, braccianti, vetturini e appunto pifferari, le cui esibizioni nel periodo natalizio venivano ricompensate da elargizioni che rappresentavano efficaci segni esteriori di caritatevole spiritualità.
La posizione dello spettatore con cilindro nel dipinto potrebbe dunque essere interpretata come quella di committente della novena raffigurata. Una conferma proviene in tal senso dal foglio che egli mantiene ben in evidenza nella mano destra, su cui sono leggibili informazioni che permettono di riconoscervi il “N. 21 / Anno 1° Sabato 19” del giornale “Il Cassandrino”, pubblicato fra il 4 luglio 1848 e il 27 gennaio 1849 nel pieno della temperie rivoluzionaria racchiusa tra l’elezione di Pio IX e la fine della Repubblica Romana mazziniana (16 Giugno 1846 – 4 Luglio 1849), fase meglio nota come la “Rivoluzione Romana”.
Legato alla figura dell’abate Francesco Ximenes, il quale venne assassinato da mano ignota il 26 luglio 1848 in seguito alla pubblicazione di articoli assai critici verso le fazioni liberali, “Il Cassandrino” occupava una posizione eminentemente conservatrice all’interno di quel florilegio di pubblicazioni giornalistiche dovute alla progressiva liberalizzazione della stampa dovuta ai progetti riformistici del primo Pio IX.
Tali sono infatti gli orientamenti espressi nell’articolo che il nostro ignoto artista ha voluto fortemente additare come chiave ermeneutica del dipinto riportandone in parte la dicitura in prima pagina (“Dialogo fra…”) laddove nell’originale numero 21 del 19 agosto 1848 essa presenta invece il titolo “Soliloquio fra’ Cassandrino e Cassandrino”; l’articolo parzialmente ritratto nel dipinto, “Dialogo fra Cassandrino e Comare Veronica”, occupava invece le due pagine finali dell’uscita [fig. 2]
Nel lungo dialogo in questione Comare Veronica si lamenta della veemente mobilitazione civile innescata dall’elezione di Giovanni Mastai Ferretti, la quale ha portato suo marito Peppe, come molti altri, a disattendere i doveri familiari. Laddove questi era stato fino ad allora un onesto carpentiere e devoto osservante della morale domestica cattolica, l’irruzione della politica attiva attraverso la questione risorgimentale l’aveva trasformato in un fanatico della partecipazione pubblica, diviso fra dimostrazioni e parate urbane, esercitazioni militari nella guardia civica, frequentazioni di blasonati salotti politici.
Tutto ciò avveniva a spese di Veronica, ormai sola responsabile del sostentamento del figlio e della famiglia, persino “bastonata” dal marito ubriaco quando questa, non vedendolo disertare l’osteria neanche nel “Giorno della Madonna”, si reca sul posto cercando spiegazioni solo per ricevere in cambio percosse. È a questo punto che Cassandrino esclama: “Buon Dio, mentre i Protestanti in Inghilterra osservano con tanta edificazione le feste, noi nella Capitale del mondo cattolico, non abbiamo più sacre neppure le ore degli offici divini!”. Bersaglio costante della lotta alla secolarizzazione continentale che occupa gran parte dell’agenda ideologica pontificia durante l’arco dell’Ottocento, il paradigmatico forestiero inglese rappresentava una figura imprescindibile della scena sociale romana.
Familiare doveva dunque apparire il panciotto in tartan che lo spettatore della novena esibisce nel dipinto, un capo d’abbigliamento che già verso la metà del secolo rappresentava una caratteristica inconfondibile della moda britannica. La scena appare insomma come l’estensione visuale della morale pauperista e reazionaria espressa dall’articolo, il quale incarna perciò la chiave ermeneutica del dipinto nonché il limite preciso della sua contestualizzazione cronologica fra l’estate del 1848 e, al più, gli albori della Repubblica Romana del 1849.
Chiarite le circostanze ideologiche è possibile avanzare alcune ipotesi circa l’origine del dipinto, che in questa sede attribuiamo al pittore danese Lorenz Frølich (1820-1908), di stanza a Roma fra il 1846 e il 1851. Allievo di Cristoffer Wilhelm Eckerbserg, di cui ravvisiamo l’influenza particolarmente nello sfondo architettonico e nella qualità squisitamente accademica del disegno, Frølich era molto ben inserito nella comunità internazionale di Roma, ambiente a cui è possibile far risalire un interesse preciso e continuativo verso la rappresentazione di novene e pifferari. Un olio di Micheal Neher del 1823 [fig. 3] potrebbe essere in particolare un precedente importante di cui il nostro dipinto sembra rappresentare una sorta di parafrasi iconografica.
Proprio nella cruciale figura con tartan e cilindro è possibile inoltre ravvisare un precedente iconografico limitrofo nel celebre basso-rilievo marmoreo “Priamo supplica Achille per il corpo di Ettore” di Bertel Thorvaldsen, [fig. 4] già citato nel noto ritratto di gruppo degli artisti danesi a Roma di Ditlev Blunck presso l’Osteria Gensola in Trastevere [fig 5].
La variazione sullo schemata che già Elena di Maio e Stefano Susinno facevano risalire al sarcofago Borghese raffigurante la “Morte di Melagro” (oggi al Louvre), aveva radici profonde nella comunità scandinavo-tedesca di Roma sin dai tempi di Asmus Jakob Carstens, che ne mostrava già la ricezione nel suo “Die griechischen Helden im Zelt des Achill” (Staatliche Museen zu Berlin).
Proprio nel 1849 Frølich stava ragionando su questa iconografia, come possiamo appurare da un’illustrazione in cui incontriamo appunto la variazione con gambe incrociate che contraddistingue anche il committente inglese della novena [fig. 6]. Apprendiamo che questa era una sorta di illustrazione per una cassa di mutuo soccorso che gli artisti scandinavi avevano creato per soccorrere i membri della comunità artistica maggiormente colpiti dai contraccolpi professionali dovuti ai tumulti della Rivoluzione Romana.
Con uno spirito non troppo lontano da quello espresso nell’articolo de “Il Cassandrino”, la divinità seduta denominata “Fattig Bissens” [Dea dell’elemosine] viene rappresentata accanto ad un gruppo di questuanti di varia estrazione sociale. Le turbolenze politiche avevano di fatto reso particolarmente gravose le condizioni di sussistenza di molti individui fino a creare una situazione, solo apparentemente paradossale, in cui un artista protestante come Frølich si ritrova a sposare gli indirizzi ultraconservatori di un foglio come “Il Cassandrino”.
Riconosciamo infine nell’opera il raffinato gusto cromatico, l’attenzione alla temperatura emotiva e all’equilibrio formale complessivo che contraddistinguono altri dipinti di Frølich appartenenti allo stesso periodo [fig. 7], nonché alcune specialità tipiche del danese come il delizioso profilo della bambina [fig. 8] sulla sinistra. Frølich metterà più avanti a frutto questa fragranza espressiva al servizio del connazionale Hans Christian Andersen, delle cui fiabe ha egli curato numerose edizioni illustrate.
Oltre a costituire una rarità nella vicenda artistica di Frølich, che ha in generale frequentato poco la tecnica ad olio nella sua carriera al di fuori degli anni italiani, l’opera rappresenta un documento storico-sociale assolutamente unico nel suo genere quale testimonianza autosufficiente delle complessità politiche della Rivoluzione Romana, nonché delle sue ricadute per la storia della scena artistica Romana nell’Ottocento.
Tiziano Antognozzi