(Fossombrone 1895 – Saint-Jean-du-Gard 1979)
Maria ed Elisabetta
Misure: 66 x 93 cm
Tecnica: olio su tela
Firmato in basso a sinistra: “Mario Tozzi”
Esposizioni: III Quadriennale di Roma, 1939, n. 3 (illustr. p. 146 del Catalogo)
Provenienza: Roma, collezione privata
Maria ed Elisabetta, tela esposta da Mario Tozzi nella sua sala personale alla III Quadriennale di Roma del 1939, è una delle opere in cui maggiormente l’autore rielabora le memorie del Trecento e del Quattrocento italiani. Se negli anni Venti e nella prima parte degli anni Trenta, periodo in cui il pittore ancora viveva a Parigi, la sua tendenza andava principalmente verso l’esplorazione dei confini tra realtà e sogno, tramite frammenti, sagome statuarie ma viventi, scene silenziose e bloccate in una dimensione immaginaria e senza tempo, in questo frangente di fine decennio invece prevale una dimensione più sensibile all’incontro col reale.
In questa rappresentazione dell’episodio evangelico della Visitazione, Maria ed Elisabetta, entrambe incinte, complici nel loro abbraccio e nella loro confidenza, sono inserite in un ambiente domestico novecentesco: a destra il grande camino e sullo sfondo della stanza porte e finestre chiuse, una figura giovanile che rammenda un abito e un gattino bianco che smorza la solennità della scena e la riconduce a un momento di intima quotidianità familiare. Come recita una recensione della Quadriennale del 1939, «Mario Tozzi lavora conformandosi completamente ai principii semplificatori del Novecento. Nel quadro La visitazione il caldo abbraccio pieno di lirismo delle due Sante è inquadrato in un interno abbozzato con molta semplicità»[1].
Le due protagoniste mantengono un plasticismo scultoreo e monumentale, con le volumetrie che si percepiscono da sotto i mantelli e gli ampi panneggi, in una sapiente citazione della Visitazione giottesca di Assisi e della Cappella Scrovegni. Giotto, punto cardine della poetica maestosa e sospesa di Mario Tozzi, ritorna in questa composizione per le masse, i volumi, ma anche per l’intensità drammatica dei due volti che si avvicinano. In un intervento del pittore sulla prima pagina del “Quadrivio” del febbraio 1937, a proposito del seicentenario dalla morte di Giotto, peraltro illustrato proprio con un dettaglio di Maria ed Elisabetta della Cappella Scrovegni, si legge: «Morto, Giotto? Guardo le grandi riproduzioni delle sue opere che ricoprono fino al soffitto le pareti dello sgabuzzino dove sono uso a leggere, meditare, e mi rassicuro. È sempre lì, il mio vecchio maestro, fra Assisi e Padova […]. Sette secoli d’arte gravano sulle sue spalle, e malgrado le deviazioni che ne seguirono, s’innalzano dalla piattaforma da lui costruita»[2].
La composizione vive in una sorta di immutabilità temporale e spaziale, in cui le pose e i gesti sono incastonati in un attimo di magica eternità circondata dalla statica compiutezza degli oggetti e dell’umile ambientazione, in cui le suppellettili, protagoniste di piccole nature morte, ricordano la prosaicità della vita. La prospettiva centrale, le simmetrie, i ritmi cadenzati e lenti pongono l’attenzione sull’abbraccio delle due donne, in una visione serena, ieratica, incantata, tra l’immanenza del profano e la trascendenza del sacro.
[1] D. Dercsényi, La III Quadriennale d’Arte Nazionale a Roma, in “Corvina. Rivista di scienze, lettere ed arti della Societa ungherese-italiana Mattia Corvino”, II, 3, 1939, p. 252.
[2] M. Tozzi, Giotto 1937. Il più vivo di tutti i pittori, in “Il Quadrivio”, 5, XV, 1937, p. 1.