OPERA DISPONIBILE
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Antonio Mancini

(Roma 1852 - 1930)

Autoritratto della follia (1881-1882)

Misure: cm 48 x 38

Tecnica: olio su cartone

Esposizioni: 1927, Torino, Galleria Guglielmi.

Bibliografia: C. Virno, Antonio Mancini. Catalogo ragionato dell’opera. La pittura a olio, Roma, De Luca Editori d’Arte, 2019, n. 276; bibliografia precedente.

Provenienza: collezione privata

Per gran parte della sua vita, Antonio Mancini, pittore geniale, luminoso e tormentato, pratica il genere del ritratto e dell’autoritratto, denunciando un forte interesse per l’indagine introspettiva e psicologica della figura umana. Dopo il soggiorno parigino del 1878, in cui l’artista vive insieme a Vincenzo Gemito, rientra a Napoli per alcune divergenze con l’amico e per l’affiorare dei primi problemi di salute mentale. Il cosiddetto ciclo dei ritratti della follia prende avvio proprio in questa delicata fase della durata di circa due anni: dal momento in cui viene ricoverato all’Ospedale degli Incurabili, manicomio napoletano, nell’ottobre del 1881, fino a quando non viene dimesso nel febbraio nel 1882 e si trasferisce a Roma nell’anno seguente. «Quasi a voler fermare l’ombra della propria follia»[1], il pittore, in questo specifico Autoritratto della follia eseguito appunto tra il 1881 e il 1882, applica una pennellata pressoché monocroma, sintetica, larga ed espressiva, che sfocia in un voluto non-finito, lasciando spazio al valore cromatico del cartone che emerge dal fondo e che compone lo spazio del busto, di cui notiamo la camicia bianca e la cravatta.

Come negli altri autoritratti appartenenti allo stesso filone eseguiti nel 1882, Mancini concentra tutta l’attenzione sulla frontalità e sullo sguardo intenso e allucinato che contraddistingue il suo volto negli anni del ricovero. In questo intenso frangente non rinuncia mai alla pittura e anzi attenua forse il proprio tumulto interiore con l’esecuzione di autoritratti dal forte risvolto catartico. L’indagine della realtà esterna e introspettiva collimano attraverso un forte vigore espressivo, che in questo ritratto specifico appare più marcato perché il volto affiora in maniera conturbante dall’oscurità con un sorriso stravolto, come se fosse fiocamente illuminato da una candela. Emerge qui chiaro il legame con la sensibilità luministica e con gli esiti drammatici della pittura di Caravaggio e dei caravaggisti, come Jusepe de Ribera e Battistello Caracciolo, che Mancini ben conosce sin dagli anni giovanili a Napoli: un forte effetto di lume chiaroscurato, dal valore simbolico, che fa individuare i bagliori del volto e ne lascia altri in ombra. Aspetto che, peraltro, richiama la più tarda galleria degli Alienati di Théodore Géricault, da cui emerge smarrimento, partecipazione, ebbrezza, pazzia.

Questa fase di Mancini verrà analizzata anche da Michele Sciuti, ai tempi direttore dell’ospedale, che nel 1947, pubblicherà uno studio sui numerosi autoritratti eseguiti da Mancini in manicomio, quando «va e viene irrequieto dinanzi alla tela, lasciando nervosamente tre o quattro colpi di pennello e ritraendosi a misurare il risultato»[2]. Molti autoritratti eseguiti in questa circostanza, non ci sono pervenuti e per tale ragione preme sottolineare l’importanza del dipinto in esame, non solo perché ci illumina su un’importante fase della vicenda biografica e stilistica dell’autore, ma soprattutto perché rappresenta un prezioso frammento di questa produzione arrivato fino a oggi, in cui «il Mancini rinunzia ad ogni lenocinio formale per riportare sulla tela i tumulti dell’anima»[3].

Antonio Mancini, nato a Roma nel 1852, passa l’infanzia tra Terni e Narni, presso i padri Scolopi. Segue la famiglia a Napoli nel 1865 e si iscrive molto precocemente all’Istituto di Belle Arti, dove conosce e si lega allo scultore coetaneo Vincenzo Gemito (1852-1929). Allievi nella bottega di Stanislao Lista (1824-1908), iniziano entrambi a disegnare dal vero e a copiare dall’antico. Contemporaneamente, Mancini viene incoraggiato da Domenico Morelli (1823-1901), titolare della cattedra di Pittura in Accademia, ad interessarsi al Seicento napoletano e a indirizzarsi verso una pittura dai toni fortemente antiaccademici, come si nota da Lo scugnizzo.

Con Mio padre esordisce alla Promotrice di Napoli nel 1870, anno in cui si stabilisce, insieme a Gemito e altri artisti, nell’ex monastero di Sant’Andrea delle Dame. L’ultima medicina e Per un fiore compaiono alla Promotrice del 1871. Notato dal conte e collezionista francese Albert Cahen, comincia a ricevere i primi incarichi privati da quello che diventerà il suo personale mecenate. Scugnizzi, ragazze povere, ultimi e diseredati sono i principali soggetti della prima produzione di Antonio Mancini, che, lontano da qualsiasi intento aneddotico, utilizza una tavolozza concentrata prevalentemente su tonalità scure di matrice seicentesca. Incoraggiato da Cahen, negli anni Settanta, espone ai Salon parigini, dove ottiene un immediato successo di pubblico e di critica. Conosce Mariano Fortuny nel 1874 e nonostante questo sia l’anno della sua morte, nei suoi ultimi soggiorni a Portici, insieme a Francesco Paolo Michetti (1851-1929) ed Edoardo Dalbono (1841-1915) riesce a trasmettere a Mancini alcuni valori cromatici e luministici nuovi: Il saltimbanco dopo lo spettacolo è l’opera che segna il cambiamento stilistico dell’autore. Tra raffinatezza esecutiva, tocco veloce e qualità impeccabile, la luce emerge dall’oscurità e colpisce il mercate parigino Adolphe Goupil, che offre subito un contratto all’artista.

Nel 1878 vive per un periodo a Parigi con l’amico Gemito, ma i primi accenni della malattia mentale lo riconducono ben presto a Napoli. In questa fase, passa molto tempo nel manicomio di Napoli a partire dal 1881. Ma non smette mai di dipingere: è il momento dei “ritratti della follia”, autorappresentazioni intensissime e allucinate. Ripresosi, partecipa alla Mostra Nazionale di Roma del 1883 e si trasferisce proprio nella Capitale, dove attira l’attenzione del marchese Capranica del Grillo, suo nuovo mecenate e affezionato protettore, che gli procura molti contatti tra i collezionisti americani ed europei. Nella seconda metà degli anni Ottanta inizia ad utilizzare la cosiddetta tecnica della graticola, uno schema a griglia, un reticolato che gli permette di mantenere salde le forme nonostante il suo caratteristico cromatismo sfaldato. Grazie all’aiuto di John Singer Sargen, esegue ritratti per l’aristocrazia inglese e francese. Attivissimo a livello espositivo, partecipa alla Mostra nazionale di Venezia del 1887 e poi alla Biennale, dove è presente dalla prima del 1895 a quella del 1930.

Si succedono anche le mostre personali e i trionfi connessi anche ai suoi diversi soggiorni londinesi dei primi anni del Novecento. Sottoscrive contratti con importanti mercanti, tra cui Messinger e Du Chêne de Vère per i quali esegue tele di grandi dimensioni. Nonostante sia vincolato alla creazione di scene neo settecentesche, leggeri soggetti di genere e ritratti femminili, sfoggia una tecnica brillante e sintetica, in cui spesso la pittura risulta materica. Raggiunge la definitiva consacrazione alla Biennale del 1920, dove tiene una personale, seguita da quella alla Galleria Pesaro di Milano del 1925. Continua a dipingere ed esporre per tutti gli anni Venti, mentre abita a Roma nella casa dei nipoti, dove muore nel 1930.

 

Elena Lago

[1] A. Schettini, Prima mostra della raccolta Casella, Milano, Galleria dell’Esame, 1941

[2] M. Sciuti, la malattia mentale di Antonio Mancini, Napoli, 1947, p. 228.

[3] G. Guida, Profilo di Antonio Mancini. La Fiorentina Primaverile, Firenze, 1922.

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