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paesaggi dal vero tra realtà e visione

Sabrina Spinazzè

 

Esiste un fil rouge che percorre tutta la parabola pittorica di Francesco Paolo Michetti, uno dei protagonisti di spicco del panorama artistico italiano e internazionale tra gli anni Settanta dell’Ottocento e i primi decenni del nuovo secolo, ed è l’attitudine conoscitiva e sperimentale che, in quella linea di confine tra istanze veriste e cultura simbolista, lo porta presto a varcare le soglie del reale alla ricerca della sua essenza misteriosa ed eterna.

La vicenda di Michetti si snoda in una dimensione cosmopolita che si svolge principalmente tra l’Abruzzo, Napoli, Roma e Parigi, ma sullo sfondo ci sono anche Londra e l’America, dove le sue opere sono frequentemente esposte e ampiamente collezionate. La sua arte si sviluppa dunque sin da subito in un serrato confronto con le tendenze più aggiornate del suo tempo.

Giunto nel 1867 a 16 anni dall’Abruzzo a Napoli per studiare all’Istituto di Belle Arti, Michetti abbandona presto le aule accademiche. Il realismo dei fratelli Palizzi, la fascinazione per la vitalità della natura sono i suoi primi punti di partenza. In sintonia con la ricerca di altri napoletani, in particolare con i pittori della scuola di Resina, Michetti preferisce dipingere all’aria aperta, prima nel bosco di Capodimonte, poi, incoraggiato da Edoardo Dalbono, si rivolgerà a quel mondo incorrotto che era l’Abruzzo di fine Ottocento, destinato a diventare, con le sue tradizioni contadine e pastorali, la sua principale fucina di stimoli.

Nel 1871 l’artista si lega con contratto al mercante tedesco Friedrich Reitlinger, a Napoli in cerca di giovani talenti, e nello stesso anno è per la prima volta a Parigi. Il soggiorno parigino e, in particolare, la conoscenza della pittura dello spagnolo Mariano Fortuny, vero astro del momento, e, attraverso di lui, del linguaggio delle stampe giapponesi, in gran voga nella capitale francese, sono determinanti nell’indirizzare l’iniziale naturalismo palizziano verso una nuova direzione. Michetti comprende le novità tecniche della pittura di Fortuny, ne assimila l’audacia dei tagli, la bidimensionalità della rappresentazione, i colori puri, e la sua pittura cambia, diventa una pittura di tocco rapida e raffinatissima che alterna con disinvoltura parti finite ad altre di estrema frammentazione formale e cromatica. E’ quindi sulla scorta degli esempi forniti dal maestro spagnolo che Michetti declina il suo immaginario pastorale in termini più onirici, poetici, leggeri, e, di conseguenza, più astratti, sviluppando una maniera destinata ad avere uno straordinario successo nel mercato internazionale. Dalla metà degli anni Settanta l’artista inizia poi ad affiancare alla tematica agreste e pastorale la rappresentazione dei riti e delle tradizioni popolari d’Abruzzo, i cui i principali momenti come matrimoni, feste e processioni sono intensamente sentiti nella loro anima antica e ancestrale, nel loro valore universale, mentre sul fronte tecnico la volontà di presa di possesso della realtà nella singolarità di ogni impressione lo porta ad  usare  sempre più  frequentemente nei suoi studi la tempera e il pastello, efficacissimi per fermare la fugacità del reale e per rendere quella spontaneità che lo faceva definire dal critico francese Louis Énault “un Manet italien”[1]. La tempera, in particolare, viene diluita con un preparato a base di colla per ottenere effetti di maggiore luminosità e trasparenza che conferiscono alle immagini la freschezza dell’istantanea. Sarà l’artista stesso, che contemporaneamente, con attitudine sperimentale, esplora le molteplici possibilità del mezzo fotografico, a definire i suoi lavori “istantanee”. È in questo contesto che va considerata la sua produzione di paesaggi campestri e di marine, molto copiosa tra gli anni Ottanta e il primo decennio del nuovo secolo. Sono tutti fogli di dimensione simile, eseguiti talvolta solo a pastello, talvolta con l’aggiunta di interventi a tempera e matita. Una serie per l’appunto di “istantanee”, a volte di vere e proprie zoomate su particolari,  in cui la terra d’Abruzzo si rivela in tutti i suoi molteplici aspetti: i riflessi della luce sulle acque dell’Adriatico, in particolare intorno agli scogli di Ortona, protagonisti di una delle sue opere più felici, Impressione sull’Adriatico (Milano, Galleria d’Arte Moderna); la collina con Francavilla al Mare sullo sfondo, dove l’artista risiede a partire dal 1878; i cieli solcati da ampie nuvole che sovrastano l’orizzonte sconfinato del mare; la campagna con i suoi sentieri sassosi; il profilo nodoso degli alberi d’ulivo; la maestà della Majella al tramonto; il fiume Orfento fiancheggiato da rocce.

Michetti utilizza supporti colorati – per lo più bruni o grigi – e li lascia spesso scoperti sfruttando così la cromia del fondo, e, variando inclinazione e pressione del pastello, utilizzando a fini pittorici la porosità della carta, intervenendo ora con raschiature e graffiature, ora con sottili tratteggi o con veloci tocchi e svirgolature di colore, riesce a cogliere con la massima immediatezza vibrazioni luminose e fugaci impressioni d’ambiente. Il paesaggio si spoglia di ogni elemento aneddotico e narrativo, le forme si disfano in atmosfere vaporose e astraenti, straordinariamente evocative nell’indefinizione dei particolari, diventano visioni palpitanti e misteriose.

Questi pastelli non sono concepiti come semplici bozzetti, preparatori per dipinti di maggiore impegno, ma, fatto importante per l’epoca, come opere compiute e autonome. A partire dal 1881 in più occasioni espositive infatti l’artista le presenta insieme ad altri studi di figura e animali realizzati a tempera e pastello, spesso con cornici dipinte e arricchite di inserti plastici come fiori, parole, stelle, note musicali. Curando personalmente l’allestimento, Michetti saturava le pareti delle sale allo scopo di creare una vera e propria esperienza immersiva e multisensoriale che permetteva agli spettatori di venir catapultati nella fisicità luminosa, sensuale e primitiva della regione adriatica, colta nella mutevolezza delle sue condizioni atmosferiche, un continuum di immagini dove figure e paesaggio costituivano i diversi momenti di un’unica realtà, inafferrabile e in perenne divenire. Si tratta di una ricerca che per il carattere non finito delle opere non mancherà di attirargli molte critiche, ma che sarà sempre sostenuta dall’amico Gabriele d’Annunzio, il quale dal 1880 lavora con Michetti in stretta comunanza di intenti e di spirito.  Il Vate condivide per anni con lui e con lo scultore Costantino Barbella, il musicista Francesco Paolo Tosti e l’artista e musicista Paolo De Cecco una singolare esperienza di cenacolo culturale in cui, all’insegna dell’opera d’arte totale, si inseguivano preziose affinità tra suoni, colori, parole e forme. Nel 1883 così si esprimeva quindi a proposito dei pastelli di Michetti:

“E ne’ cieli che misteri di nuvole, che popolo fantastico di forme! Era come il grande poema della luce […] E la tutte le trasparenze più dolci, tutte le più fini tenerezze dei riflessi, tutte le fiamme del colore più vive, e i cangiamenti improvvisi, e i contrasti audacissimi, e li opalizzamenti e i bagliori aveva fermato il pastello”[2]

Inoltre, in più occasioni d’Annunzio sottolineerà nell’opera dell’amico la peculiarità di una ricerca che andava ben oltre la mera rappresentazione del reale, approdando, nel passaggio dal “vedere” alla “visione”, ad una idea di arte come esperienza conoscitiva:

così scriveva ad esempio in un articolo pubblicato sulla rivista “Il Convito”:

“Per l’assiduità del contemplare, la sua vista a poco a poco si è andata mutando in visione profonda e continua. […] Per l’assiduità del meditare, la sua mente è andata a poco a poco acquistando una virtù che penetra e conosce l’anima delle cose”[3].

La ricerca che Michetti porta avanti con i suoi pastelli di paesaggio presenta straordinari punti di contatto con quella di un altro dei grandi protagonisti dell’arte internazionale trai due secoli, James Abbott McNeill Whistler. Americano di nascita, Whistler svolge la sua vicenda artistica tra Londra e Parigi, dove negli anni Sessanta dell’Ottocento si era affermato con composizioni eleganti in cui la tradizione del ritratto inglese incontrava l’arte orientale e si declinava così in una pittura sintetica ed evocativa, di cui l’artista sottolineava attraverso la scelta dei titoli l’assonanza con la musica. Nel 1879 Whistler era stato protagonista di una clamorosa vicenda giudiziaria che, in nome della libertà dell’espressione artistica, lo aveva visto contrapporsi a John Ruskin, uno dei critici d’arte più influenti del tempo, il quale aveva paragonato il suo Notturno in nero e oro. Il razzo cadente a una secchiata di colore gettata in faccia al pubblico. Vinta la causa ma impoverito dalle spese processuali, Whistler riparava a Venezia dove, pagato dalla Fine Art Society, rimaneva a lavorare per 14 mesi, realizzando dodici incisioni e quasi cento pastelli. Questi ultimi sono talmente simili come concezione e come tecnica a quelli realizzati da Michetti nello stesso periodo che non si può escludere un contatto diretto tra i due artisti attivi sulle rive dell’Adriatico a poche centinaia di chilometri di distanza.  Inoltre anche Whistler, tornato a Londra, nel 1881 al pari di Michetti esporrà i suoi pastelli come opere compiute, e li esporrà tutti insieme affollando le pareti in un allestimento da lui personalmente curato, non mancando ovviamente anch’egli di attirare a sé gli strali di molti critici del tempo.

Questa concezione del paesaggio evocativa e non descrittiva espressa attraverso la tecnica del pastello, che pone Michetti in linea con le esperienze della cultura artistica internazionale tra i due secoli, avrà in Italia il suo principale erede in uno dei grandi protagonisti della stagione simbolista, Giulio Aristide Sartorio, che proprio a Michetti riconoscerà il merito di averlo instradato verso il paesaggio, ponendogli tra le mani la sua scatola di pastelli. “Per istinto non mi sono mai creduto allievo di nessuno”, scrive Sartorio, “ e se idee di libertà e di visione devo a qualcuno, le devo a Michetti più che ad altri”[4].

Michetti porterà avanti la sua produzione di pastelli fino alle soglie del Novecento, in un trentennio costellato dalla realizzazione di opere di capitale importanza quali Il voto (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea), La figlia di Jorio (Pescara, Palazzo della Provincia) o Le Serpi e Gli Storpi (Francavilla al Mare, Museo Michetti) che faranno di lui uno dei maestri più celebrati tra i due secoli.

Nel suo ultimo periodo di attività l’anziano artista, ormai volutamente slegato da ragioni espositive e di mercato, svilupperà in termini sempre più sperimentali la sua ricerca pittorica, intrecciandola con esperimenti di ottica, fisica, meccanica, cinematografia, in un febbrile inseguimento delle leggi segrete della vita. Con una tavolozza ridotta al monocromo, privilegiando l’uso della tempera diluita con glicerina, la pittura si libererà in pennellate dal forte valore astraente, capaci di unire figure e paesaggio in una realtà fluida, inafferrabile e senza soluzione di continuità, per cogliere quello che lui sente come la sostanza immutabile del reale. Una ricerca in cui l’artista, indifferente al successo, affermerà la sua modernissima autonomia di visione con esiti che appaiono assolutamente anticipatrici di alcune delle esperienze delle avanguardie del Novecento.

 

Sabrina Spinazzè

 

[1] L. Énault, L’Exposition de Milan, in “Le Figaro”, 20 luglio 1881.

[2] G. d’Annunzio, Ricordi francavillesi. Frammento autobiografico, in “Fanfulla della Domenica”, 7 gennaio 1883.

[3] G. d’Annunzio, Nota su Francesco Paolo Michetti, in “Il Convito”, 1896, 8, pp. 583-584.

[4] Giulio Aristide Sartorio all’autore del libro, in T. Sillani, Francesco Paolo Michetti, Milano-Roma, Bestetti e Tumminelli, 1932, p. 117.

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