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Pittore senza tempo

 

Manuel Barrese

Mario Cavaglieri nacque a Rovigo nel 1887 da una agiata famiglia israelita. Dal 1900 al 1917 visse a Padova soggiornando però tra Bologna, Roma, Parigi e Venezia. Iniziò presto a esporre a Roma, alla mostra della locale Società Amatori e Cultori (1907) e, a Venezia, alle mostre dei “dissidenti” di Ca’ Pesaro (1909, 1910, 1912, 1913). Dal 1912 partecipò con una certa assiduità alle Biennali di Venezia (1914, 1920, 1922, 1924, 1938, 1948, 1950, 1957). Oltre a figurare alle mostre della Secessione romana, si impose anche a livello internazionale prendendo parte nel 1913 a una mostra a Monaco di Baviera e, nel 1918, in una collettiva a Zurigo.

Nel 1919 fu protagonista di una vasta esposizione a Roma, presso la Casa d’Arte Cagiati, che attirò la curiosità di un giovane Roberto Longhi. L’anno successivo espose alla Galleria Pesaro di Milano con una presentazione di Vittorio Pica. Dal 1925 – trasferitosi in Francia nella proprietà guascone di Peyloubére, nella zona di Auch – arrivò ad esporre con frequenza al Salon d’Automne e al Salon des Indépendants.

La pittura di Cavaglieri stupisce subito per l’attenzione verso un acceso cromatismo che si collega all’eletta tradizione veneta. La sua prima formazione – avvenuta tra Padova e Venezia, dapprima con Giovanni Vianello e poi con Cesare Laurenti – risentì fortemente dell’allora pervasivo clima delle secessioni austro-tedesche.

Benché già nelle prove degli inizi avesse dimostrato una buona consapevolezza degli sviluppi del Post-impressionismo, è nel 1911 – in coincidenza di un primo fondante soggiorno a Parigi – che Cavaglieri spostò il raggio delle sue simpatie stilistiche dalla Mitteleuropa alla Francia. Innestando su una preesistente – e tutta klimtiana – vocazione alla saturazione visiva del piano pittorico, Cavaglieri si dimostrò ricettivo verso i formalismi divulgati sullo scorcio del XIX secolo prima dai cosiddetti Nabis e, in modalità sempre più radicali, dai Fauves. Così, nel solco di Bonnard, Serusier, Vuillard e Matisse, l’artista rodigino –  fino al 1969, anno della morte – sviluppò una poetica a tratti intimista, a tratti tesa alla celebrazione delle classi più agiate, declinandola sul crinale della bidimensionalità, sul gusto dell’horror vacui e, soprattutto, su quell’enfatizzazione del dato coloristico che avrebbe poi portato un critico acuto come Maurizio Fagiolo dell’Arco a definire Cavaglieri il «Matisse del Triveneto».

Nella sua pittura materica stesa con vibranti addizioni, Cavaglieri si soffermò a descrivere una elegante civiltà alto-borghese immersa in ambienti connotati da oggetti rari e preziosi. Accanto ai ritratti della moglie Giulietta – sposata nel 1921 e diventata subito sua modella prediletta – Cavaglieri indugiò nella descrizione di sontuose suppellettili come stoffe, arazzi, porcellane, lampadari. Non a caso l’autorevole Roberto Longhi, già nel 1919, sostenne che ogni quadro dell’artista appariva «ricco, cantante e sfrenato proprio come uno scialle vero, un gaudioso tappeto». 

Quale cantore di un mondo aristocratico rarefatto – e a ben vedere un po’ in disfacimento – caratterizzato da oggetti lievemente démodé – lo scrittore Giorgio Bassani, in un insuperato articolo apparso sulla longhiana rivista “Paragone” nel 1953, si riferì a Cavaglieri come «pittore di tenere archeologie dell’altroieri». 

L’ispirato, ma mai aneddotico e banale, naturalismo di Cavaglieri affascinò alcuni dei più influenti storici dell’arte italiani del Novecento, ad esempio Longhi e Carlo Ludovico Ragghianti. Proprio quest’ultimo, nel 1953, gli volle dedicare una grande personale presso la Strozzina di Firenze con presentazione di Giuseppe Raimondi. Sempre sotto gli auspici di Ragghianti, Cavaglieri venne poi riproposto all’attenzione della critica e del pubblico nell’importante mostra di revisione Arte moderna in Italia 1915-1935, organizzata a Palazzo Strozzi a Firenze (1967).

 

Manuel Barrese

 

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