OPERA DISPONIBILE
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Cesare Mariani

(Roma 1826 - 1901)

Venditore di Maschere a Pompei (1875)

Misure: 41 x 34,5 cm

Tecnica: olio su tela

Firmato e datato in basso a sinistra: “C. Mariani 1875”

Provenienza: collezione privata

Bibliografia: G. Berardi, I pittori archeologi nella Roma postunitaria e il signor Goupil, in Alma-Tadema e la nostalgia dell’antico, catalogo della mostra a cura di E. Querci e S. De Caro (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, 2007), Milano, Electa, pp. 104 (ill.), 106.

Cesare Mariani è stato uno dei pittori romani più in vista nella seconda metà dell’Ottocento, non tanto per questioni legate al successo di mercato – che pure ebbe – , quanto per i moltissimi e importanti incarichi pubblici ricevuti, in particolare da committenza ecclesiastica, tanto da farne uno dei principali autori di soggetto religioso a Roma, in cicli decorativi ad affresco e spesso coinvolto anche in cantieri di restauro. Sono esempio di questa attività, a Roma, i suoi interventi in Santa Maria in Monticelli, a Santa Lucia del Gonfalone, in San Paolo Fuori le Mura (1857-1860), in San Lorenzo fuori Le Mura e, al di fuori della capitale, in Santa Maria delle Grazie a Teramo, dove lavora anche come architetto, disegnando l’edificio. Numerosi e rilevanti sono, inoltre, i suoi interventi decorativi nell’edilizia civile, in palazzi nobiliari, teatri ed edifici statali; suoi sono, ad esempio, gli affreschi per la Sala Gialla del Ministero delle Finanze (1879).

Raffaello Ojetti, architetto padre del più noto critico Ugo, gli dedica una prima biografia già nel 1872, quanto Mariani ha 46 anni, è stato da poco nominato Cavaliere della Corona d’Italia e ha ricevuto, quello stesso anno, la Croce dell’Ordine della Rosa dall’imperatore del Brasile.

Accanto alla committenza ecclesiastica e pubblica, in cui, dopo l’iniziale inclinazione purista, si avverte il suo debito verso i classici e la tradizione dei maestri del Rinascimento, Mariani si dedica alla pittura di cavalletto, al paesaggio- anche in piccoli studi (si vedano le opere al Museo di Roma di Palazzo Braschi) -, e alla pittura di genere, cimentandosi più volte nei soggetti neopompeiani. Se un primo dipinto con tale soggetto viene da Mariani presentato alla mostra di Firenze del 1861 (Indovina, bozzetto al Museo di Roma, Palazzo Braschi), è negli anni settanta che sembra dedicarsi con più frequenza a quelle scene di vita quotidiana dell’antica Roma e di Pompei, che Edward Bulwer-Lytton aveva contribuito a evocare nella fantasia collettiva attraverso il suo celebre romanzo peplum The last days of Pompeii (1834). Meno di trenta anni dopo la straordinaria invenzione dell’archeologo Giuseppe Fiorelli – che aveva ricavato dei calchi dei corpi rimasti intrappolati sotto la cenere-, polverizzava diciotto secoli si storia facendo sentire la tragedia vesuviana come vicina e vivissima e suscitando profonda empatia, contribuendo così ad alimentare la fantasia degli artisti.

È nelle opere archeologiche che Mariani si lascia andare a un maggiore brio e scioltezza, quasi trovando una piacevole compensazione ai più impegnativi e paludati cicli pittorici che gli vengono commissionati, con continuità, lungo tutto l’arco della sua vita. Il soggetto del Venditore di maschere qui commentato, datato 1875, viene poi replicato, con alcune varianti, nell’opera esposta nel 1879 alla mostra della romana Società Amatori e Cultori con il titolo Il venditore di maschere pompeiane e riprodotto sull’“Illustrazione Italiana” quello stesso anno[1] (fig. 1); un articolo su “Cosmos Catholicus” del 1901[2], scritto per la scomparsa dell’artista, mostra un ulteriore olio, diverso in numerosi dettagli, indicato come “non finito”(fig. 2), che dimostra un interesse perdurante per questo motivo.

In un’assolata giornata estiva due donne romane – forse legate al mondo del teatro, dal momento che sono accompagnate da un giovanissimo schiavo che porta la cetra-, si avvicinano alla bottega di un venditore di maschere, incuriosite dalla merce e forse interessate a comprare. Il vecchio artigiano, a torso nudo, reso con dei tratti e delle lumeggiature alla Velazquez – ma la citazione potrebbe anche essere filtrata dallo stile dello spagnolo Mariano Fortuny -, mostra un possibile acquisto, mentre altre maschere di diversi colori ed espressioni pendono, con le loro bocche spalancate e lo sguardo fisso, attaccate a un filo e appoggiate sul bancone di marmo; altre ancora si intravedono, ordinatamente serrate sugli scaffali, nel fondo buio della bottega. Il teatro dell’antica Roma, come quello greco, si caratterizzava per l’uso di maschere, in legno o tela, completate da capelli posticci, che attraverso i colori dell’incarnato e le espressioni designavano il sesso dell’attore e il suo ruolo nello spettacolo. La maschera è una presenza ricorrente in affreschi, nei manufatti fittili e in marmo e nei mosaici romani. Celebre l’esemplare dei Musei Capitolini a Roma, scavato nel 1824 nella Vigna dei Gesuiti sull’Aventino, con la maschera tragica e comica affiancate (fig. 3), e Mariani parte proprio da questo reperto per il suo Venditore di maschere, come chiarisce un suo disegno ritraente il mosaico, con scritto al verso “schizzo per Il venditore di maschere a Pompei” (fig. 4)[3].

Per le loro evidenti qualità evocative, le maschere sono spesso inserite nei dipinti dei così detti pittori archeologi e sebbene anche Mariani studi con attenzione i particolari architettonici, le suppellettili e gli oggetti d’uso antichi, non sembra avere un approccio strettamente filologico e non cerca la ricreazione di un ambiente specifico, riconoscibile attraverso dettagli esplicitamente citati. Piuttosto crea un contesto verosimile che rende credibile e invitante la scena ritratta. Ecco dunque che in Venditore di maschere, per arricchire la scena di strada, inserisce un altare dipinto che sembra presentare la forma e i motivi di un larario domestico: dedicato al culto dei propri defunti e presenza immancabile in ogni domus romana, il larario era invece, per ovvi motivi, assente nelle strade pubbliche, dove tuttavia potevano trovarsi, in prossimità di case e botteghe, affreschi con serpenti in funzione di protezione contro il malocchio.

Altre opere dedicate a tranches de vie dell’antichità romana sono note attraverso il mercato (Allegoria della Commedia antica, 1873, The flower maidens, 1874, Gelosia), mentre nel 1880 l’artista presenta Il gioco degli astragali all’annuale Promotrice. In ognuna di queste opere riversa le proprie qualità di decoratore e abilissimo pittore, creando scene di grande piacevolezza, che certamente dovevano conquistare il pubblico borghese desideroso, attraverso l’“illusione passeggera dell’attualità di un passato remoto”[4], di identificarsi in dinamiche psicologiche e sentimentali che apparivano così sorprendentemente prossime.

Eugenia Querci 

 

 

[1] “L’Illustrazione Italiana”, a. VI, n. 35, 31 agosto 1879.

[2] P.I.M., Cesare Mariani, in “Cosmos Catholicus”, a, III, n. 20, 31 ottobre 1901, p. 634.

[3] Pubblicato in Cesare Mariani (1826-1901). Dai primi studi ai bozzetti per la Sala della Maggioranza, catalogo della mostra (Roma, Galleria d’arte F. Russo, 24 marzo -20 aprile 2001) a cura di C. Virno, M. Berri,Roma 2001, n. 120, p. 96.

[4] Cit. in G. Berardi, I “pittori archeologi” nella Roma postunitaria e il signor Goupil, in E. Querci, S. De Caro, Alma-Tadema e la nostalgia dell’antico, catalogo della mostra (Napoli, Museo archeologico Nazionale 2007-2008), Electa 2007, p. 105.

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