OPERA DISPONIBILE
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Gaspare Landi

(Piacenza 1756 - 1830)

Ritratto di Antonio Canova (1807)

Misure: 60 x 52 cm

Tecnica: olio su tela

Iscrizione in alto: “Eques Canova Sculptor 1807”;

al retro, iscrizione parzialmente leggibile: “Donò […] Mazzola […] Martinengo”

Provenienza: Milano, collezione privata; collezione Martinengo

Note: un’altra versione del ritratto, datata 1806, è conservata a Roma, a Galleria Borghese

 

La fama universale di Canova, l’artista che secondo i contemporanei aveva rivoluzionato la scultura e in generale le arti del suo tempo, si era immediatamente tradotta in una fortuna figurativa non solo della sua opera, ma della stessa immagine dell’artista. Numerosi suoi contemporanei, sia pittori che scultori, lo ritrassero toccando i più diversi registri, dal ritratto dell’artista creatore, al lavoro nel suo studio (Domenico Conti Bazzani, Hugh Douglas Hamilton, Angelica Kauffmann), a quello allegorico (Giovanni Ceccarini) e celebrativo del suo ruolo di artista ufficiale (Giovanni Battista Lampi, John Jackson, Pietro Benvenuti), infine a quello amicale (Andrea Appiani, Giuseppe Bossi, Thomas Lawrence). E dunque della sua personalità potevano essere messi in luce di volta in volta la potenza della sua invenzione, la capacità di essere interlocutore dei potenti del tempo, grazie alla sua autorevolezza artistica e morale, e le qualità dell’uomo, affidate all’indagine psicologica dell’immagine1.

Tra i ritratti amicali, dedicati sobriamente a ritrarre l’uomo, godé di immediata fortuna critica quello dedicatogli da Gaspare Landi nel 1806. Fin dagli esordi a Roma nel corso del nono decennio del Settecento, il pittore piacentino aveva cercato i suoi modelli figurativi più nell’opera di Canova che in quelle dei pittori coevi. L’artista aveva addirittura coltivato l’ambizione di costituire un equivalente in pittura dell’esempio canoviano, sia nel carattere sentimentale dei soggetti graziosi, che nella tecnica adottata, fondata sulla pittura di tocco e di velatura, secondo il piacentino prassi laboriosa e ispirata da un “tatto” speciale al punto da poter essere paragonata alla celebrata “ultima mano” canoviana, cioè la tecnica che consentiva allo scultore di trasfigurare l’apparenza lapidea dei marmi fino a raggiungere effetti di morbidezza vitale2. Questo assunto teorico si era tradotto in cimenti pittorici in gara con i soggetti dell’amico, dall’Ebe coppiera dell’aquila di Giove (Brescia, Musei civici d’Arte e Storia), al calco dipinto del gruppo di Amore e Psiche che si abbracciano (Venezia, Museo Correr).

Dunque il ritratto dell’amico, che possiamo ritenere particolarmente sentito in virtù di questo rapporto di emulazione tra pittura e scultura, al punto da essere eseguito anche in pendant con il proprio Autoritratto (Roma, Galleria Borghese)3, doveva caricarsi di una intensità poetica e programmatica, che rievocava anche la scabra immediatezza dell’Autoritratto come pittore dipinto dallo stesso Canova anni prima (Firenze, Gallerie degli Uffizi).

Anton Raphael Mengs, accanto ai ritratti ufficiali ambientati, aveva saputo definire una tipologia di ritratti morali, disadorni, dal fondo astratto e i costumi non ridondanti, concentrati sul volto come rivelatore del carattere, della tipicità espressiva, della dimensione psicologica e soprattutto morale dell’effigiato. Ispirato da quei confronti, anche Landi aveva saputo distinguersi in questo tipo di ritratto morale e intellettuale, che doveva apparire come dipinto all’impronta, quasi un ritratto “parlante”, con il personaggio rappresentato nell’atto di proferire parola verso l’interlocutore.

Il ritratto di Canova appare esemplarmente incarnare queste caratteristiche. Sul fondo neutro si staglia il busto di tre quarti, in abito scuro, con il volto vivente e illuminato, dipinto con le labbra schiuse come parlanti, gli occhi vivaci e mobili. L’immagine restituisce oltre alla fisionomia anche il carattere di Canova, che le fonti del tempo unanimemente descrivevano come affabile e aperto, cordiale, gentile, generoso. L’iconografia dell’artista poi precede qui l’adozione della parrucca che l’avrebbe ringiovanito negli anni successivi, un vezzo che Ugo Foscolo non doveva perdonargli.

Il ritratto ebbe grande fortuna critica già all’epoca, giunta fino a tempi recenti. Giuseppe Antonio Guattani l’aveva recensito nel 1807, elogiando il gusto del suo committente, il conte Antonio Pezzoli di Bergamo (1806, Bergamo, Accademia Carrara), che era stato in grado di assicurarsi opere dei principali artisti del tempo, da Landi appunto ad Angelica Kauffmann, da Vincenzo Camuccini a Pietro Benvenuti:

“Non sappiamo che fino ad ora in pittura abbia il Cav. Canova avuto una immagine che più lo somigli. Tutto trovasi nell’abito, e nel contegno: in quanto alla maschera, a pennello vi sono espresse le sue parti grandi caratteristiche, la fronte, cioè, gl’occhi, il naso, le guance, la bocca, il mento, i capelli. Non basta: la forza del colorito con la magia del chiaroscuro ne fanno (ciò che importa) trapelare dalla Fisionomia lo spirituale dell’anima, quel delicato sentimento ch’egli mette ne’ suoi lavori: senza questo, meccanica sarebbe l’opera, il ritratto non ritratto, e artigiano l’artista che lo dipinse. Ma Roma lo ha veduto e deciso, con fare al magistrale pennello del Sig. Cav. Landi i dovuti elogj: onde superfluo si rende il far loro eco coi nostri.”

Un esempio della ininterrotta fortuna di Landi almeno come ritrattista, anche durante la lunga stagione della “sfortuna dell’accademia” (secondo la definizione di Sandra Pinto), è l’interpretazione di questo straordinario ritratto di Canova che dava Michele Rigillo nel 1932. Dopo aver parlato della finitezza del disegno e del calore del tono proseguiva: “Quello che seduce in esso è l’anima che il pittore ha dato agli occhi, la forza espressiva del taglio della bocca, le sapienti e graduate sfumature di quello sfondo, da cui balza, in un realismo audace, la figura di un volto che vive. Non dimenticheremo mai il rilievo di questa superba rappresentazione di viso umano: sembra più che un quadro, una statua. […] Il Landi è uno dei più virtuosi possessori di questa straordinaria facoltà della pittura prosopografica del tempo, e volle farla trionfare anche nel ritratto del Canova, lo scultore che di questa plastica proiettiva della pittura neo-classica dovette essere entusiasta, perché accomunava in un solo ideale rappresentativo le due arti sorelle, che l’accademismo dell’Ottocento non aveva ancora del tutto sottratte all’influenza del realismo classico del Settecento.

Si narra che quando il Canova vide per la prima volta questo bel ritratto, dicesse, scherzando, agli amici: “Ecco: adesso io non morirò più….” . Perché infatti, questo del Canova è il “ritratto parlante” per eccellenza. La testa energica ed arguta sembra emergere dalla tela come da una finestra, con quegli occhi brillanti, sotto quelle sopracciglie così vivamente accentuate, come in uno sforzo abituale di percezione, con quel naso dalla linea perfetta di distacco, con quelle labbra che paiono aprirsi alla parola e quei capelli d’un tono sfumato fra il grigio e l’argento, che non abbiamo visto in nessun ritratto, antico o moderno, così finemente sentiti e riprodotti.”

Come già accennato, finora erano noti due esemplari di questo ritratto, uno commissionato dal conte Pezzoli di Bergamo, l’altro, rimasto presso l’artista insieme all’Autoritratto, ereditato dal figlio e dunque giunto nella collezione del barone Otto Messinger, che doveva donare entrambe le opere alla Galleria Borghese nel 1919. A questi due esemplari, simili ma non identici, variati soprattutto nell’abbigliamento, si aggiunge quello qui presentato, datato 1807, che appare simile a quello di Bergamo, pur modificato nei dettagli dell’abito e dei capelli al punto da costituire un’opera indipendente. Questa varietà, insieme alla qualità pittorica nella resa di tocco ad esempio nei capelli, dipinti in punta di pennello, e poi nei trapassi cromatici dell’incarnato, resi per raffinate velature, rimanda alla qualità dell’autografia landiana anche per questa terza versione ritrovata.

 

Stefano Grandesso

1 Cfr. La mano e il volto di Antonio Canova. Nobile semplicità Serena grandezza, Possagno 2008; Fernando Mazzocca, La Gloria di Canova, in Canova Thorvaldsen la nascita della scultura moderna, catalogo della mostra, Milano, Gallerie d’Italia, a cura di Stefano Grandesso, Fernando Mazzocca, Milano 2019, pp. 149 ss.

2 Cfr. Stefano Grandesso, La vicenda esemplare di un pittore “neoclassico”: Gaspare Landi, Canova e l’ambiente erudito romano, in La città degli artisti nell’età di Pio VI, a cura di Liliana Barroero, Stefano Susinno, “Roma moderna e contemporanea”, X, 1-2, 2002, pp. 178-203.

3 Cfr. Stefano Grandesso, in Canova l’ideale classico tra scultura e pittura, catalogo della mostra (Forlì, Musei di San Domenico), a cura di Sergej Androsov, Fernando Mazzocca, Antonio Paolucci, con Stefano Grandesso e Francesco Leone, Cinisello Balsamo 2009, pp. 144-145, cat. I.8. I due dipinti sono inoltre pubblicati a paragone in Gaspare Landi, catalogo della mostra di Piacenza e di Roma a cura di Vittorio Sgarbi, Milano 2005, pp. 160-161.

4 Giuseppe Antonio Guattani, “Memorie Encicolpediche Romane sulle Belle Arti, Antichità,

Etc.”, vol. II, p. 108. 5

5 Michele Rigillo, Un pittore neo-classico dell’800 Gaspare Landi, in “Aurea Parma. Rivista di storia, letteratura ed arte”, XVI, 1932, pp. 79-71.

 

 

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