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Vittorio Thummel Timmel


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Vittorio Thummel Timmel

( Vienna 1886 – Trieste 1948 )

Pittore

    Vittorio Thummel Timmel

    Vito Timmel è uno spirito decisamente originale in tutti i significati che si voglion comunemente dare a quest’aggettivo; ma la sua originalità – sia personale che artistica – lo rende un giovane simpaticissimo, di piacevole conversazione.

    Egli vuole con tutta l’anima, con tutto l’entusiasmo far comprendere la sua concezione artistica: vuole che il suo ascoltatore non solo la capisca ma anche, quasi, la approfondisca e la viva con lui.

    Un’ora di conversazione con Vito Timmel v’apre gli orizzonti chiusi di un’infinità di cose nuove, belle, paradossali quasi; vi eleva al di sopra di quest’arte volgare come egli la chiama, di cui siam pieni fino ai capelli.

    E con tutto ciò Vito Timmel non è un futurista: anzi egli si guarda dall’esserlo perchè l’idea che s’è formata dell’arte, nella sua mente vulcanica ed innovatrice, è ben superiore alle concezioni di Carrà e ci.

    Anch’egli, prima di giungere a questa sua ultima maniera e maniera, parlando di Vito Timmel non vuol dire questa o quella tecnica particolare, ma vuol dire addirittura diversità di concepimento spirituale – ha dovuto passare a tra verso alcune forme ed alcuni periodi di varia influenza.

    L’influenza non guasta l’artista, ad un patto solo, però: ch’egli sappia a tempo liberarsene con uno scrollo energico e magari violento e ritenere solo quel tanto di buono ch’egli può e deve assimilare.

    Vito Timmel ha trentacinque anni: ha studiato nei paesi tedeschi: a Vienna nel «Kunst Geverbe Schule», e a Monaco, all’Accademia, che è stata il crogiuolo a tra verso il quale son passati quasi tutti i pittori e gli scultori di Trieste.

    Poi tutte le città d’Italia lo han visto per qualche mese, nel cuore delle loro vie e delle loro piazze, nella solitudine delle loro campagne, a non far nulla, a osservare, a studiare.

    Ha esposto in moltissime esposizioni e ad Arezzo gli è anche capitata la disgrazia di ricevere la medaglia d’oro per un suo «Ritratto di donna».

    All’Internazionale di Venezia non ha mai concorso, non si è mai presentato perchè aspetta l’invito, non solo, ma l’invito per esporre in una sala personale.

    Trieste, la sua città natale, gli ha rifiutato il premio di Roma della fondazione Rittmayer per il quale – a 18 anni – aveva concorso con quello stesso «Ritratto di donna» che fu premiato ad Arezzo, con la «Pausa» e con un quadro intitolato «La dormiente».

    E gliel’ha rifiutato proprio per quest’ultimo quadro dove Vito Timmel aveva voluto rappresentato, nel nudo della donna, soltanto quelle parti molli del corpo che gli altri artisti, per uno stupido senso di pruderie, trascurano.

    Questo quadro ch’egli anche considerava, del resto, come una opera d’arte compiuta e perfetta – nel senso latino – fu la pietra dello scandalo.

    La giuria se ne sentì altamente offesa: volte vedere in questo lavoro un disprezzo all’autorità costituita giudicante e rifiutò all’artista il pensionato romano.

    Vito Timmel scrollò le spalle innanzi a queste corte vedute dei suoi giudici, trovò il signor Pericle Stauropulo che gli comprò il quadro e continuò più che mai prepotente e bello, per la sua strada.

    Ormai s’era fatto parte di sè stesso: ma si sentiva a bastanza forte e abbastanza sicuro.

    Dopo il concorso Rittmayer ebbe un breve periodo d’influenza impressionistica: l’impressionismo del colore lo sedusse un poco e vi lavorò attorno senza però entusiasmarsene

    molto: tuttavia l’unica cosetta salvata di quel periodo – un piccolo «Interno di cucina» – è buono perchè a punto Vito Timmel aveva saputo penetrare veramente, senza denaturarlo, il concetto informatore di questa nuova tendenza.

    Poi, un bel giorno, capita alla Biennale di Venezia – ben inteso «en amateur» – e il Klimt lo colpisce: se ne innamora, se ne ossessiona, ne fa il suo maestro e il suo inspiratore.

    E’ questo il periodo più importante nella vita artistica di Vito Timmel: il periodo dell’influenza klimtiana.

    Nella sua giovinezza aveva sempre cercato l’impossibile: non lo aveva mai trovato: ora parve il Klimt – l’uomo più enorme come decoratore, che è arrivato a dare alla decorazione stessa un nuovo indirizzo senza portarlo, forse, ad una vera e propria forma fosse quello ch’egli cercava: e ne fu soggiogato per due anni interi.

    E allora il discepolo continuò a essere bersagliato e criticato come il maestro.

    Nei paesi dove si conosceva il Klimt, gli toccò la sorte di essere adombrato dalle evidenti parentele spirituali col celebre maestro viennese; nei paesi dove il Klimt non si conosceva che da pochi – per esempio a Trieste – gli toccò suscitare e sopportare quella tempesta d’indignazione che il suo precursore, aveva presa tutta su di sè in altri luoghi.

    Del resto Vito Timmel influenzato dal Klimt che non conobbe mai di persona – divenne un disegnatore dall’incisività e dalla saldezza di colore peregrine e squisite, che in gran parte gli socio proprie: giacchè appunto nell’imaginazione coloristica egli sviluppa note individuali in una scala armonica indipendente dal famoso capo dei secessionisti di Vienna.

    Nell’ottobre del 1913 egli espose alla Permanente Triestina – insieme a Ruggero Rovan – alcuni lavori che volevano a punto essere la magnificazione artistica di questo suo periodo.

    Un pannello decorativo per una sala da Concerto, l’«Amazzone» – una signora vestita di nero, su fondo grigio, con una sola stella – «I fiori», «La catastrofe» ed altre cose.

    E allora la critica lo accolse molto bene.

    Fu giudicato – come del resto realmente è – un artista che non si appiglia alla singolarità per nascondere deficienze; ma che, anzi, ha primissima fra le sue qualità positive, una disciplina d’arte della quale sono testimoni mirabili il disegno franco ed acuto di certe teste, l’audace precisione di certi scorci difficilissimi, l’impreveduta bellezza e delicatezza di certe colorazioni.

    Pochi artisti nostri sono tecnicamente meglio preparati del Timmel.

    E Silvio Benco si chiedeva allora:

    «Perchè, adunque, in lui codesto amore per la stilizzazione contorta della figura umana, per il deforme, per il grottesco?

    E’ difficile escluderne un po’ di snobismo, come è difficile escludere che sia un po’ voluta e caricata la perversità del suo stato d’animo.

    Un uomo che dà tali prove di disegnar bene e che si compiace ad applicare siffatta virtù a forme spesse volte cervellotiche ed arbitrarie non può mai sfuggire al sospetto che nella sua «fumerie» d’hascisc o d’oppio vi sia un po’ di «fumisterie».

    Naturalmente, contro questi facili sospetti a lui non mancano le giustificazioni e almeno, fino ad un certo punto, debbono considerarsi valide: la sua concezione, come quella del Klimt, è esclusivamente pittorica, egli non ha bisogno di normali figure umane; ma di linee, di masse, di elementi costruttivi adeguati alla sua intima sensazione del colore.

    Non è più l’impressionista che cerchi rendere la verità esteriore con la sua immediatezza più vivace; forse è un espressionista in quanto mira a tradurre in elementi sensibili la propria visione interna: ad ogni modo espressionista in altro senso da quello che oggi comunemente si dà a questi pittori.

    E la visione interna del Timmel è una visione complicata d’ironie psichiche non meno che di accordi e di accozzi coloristici.

    Ma anche di questa influenza klimtiana – come già dell’impressionismo – Vito Timmel seppe liberarsene: essa, tuttavia, gli ha giovato rendendolo un disegnatore robusto, costruttivo, poderoso che sa mettere le sue masse e le sue linee nella maggior perfezione d’insieme: lo ha fatto, sopra tutto, un tecnico solido.

    Dal pannello decorativo ch’egli ha trattato in questo periodo klimtiano – rendendosene maestro – la concezione artistica di Vito Timmel entra in un nuovo periodo assolutamente personale ed originale.

    L’espressione concreta di questo concepimento non è più il pannello decorativo – propriamente detto – è qualche cosa tra il pannello e il quadro decorativo in cui la pittura deve scomparire per dar posto all’episodio.

    Non si deve più scorgere la pennellata, la tela grassa, inverniciata, la tunica: l’evidenza deve essere tutta lasciata all’espressione artistica dell’episodio letterario decorativo.

    Ed ora egli sta lavorando ad una serie di quadri di questo genere, di cui ha già quasi ultimato il primo ed abbozzato a pena gli altri due.

    Questa serie di quadri-pannelli sarà costituita da tre composizioni e dovrebbe servire – secondo la idea dell’artista – a decorare un palazzo di giustizia.

    Gioverà – anche per la maggior comprensione dell’uomo e dell’artista – esporre un po’ particolarmente il concetto ispiratore di questo ciclo decorativo, anche perchè le espressioni ironiche, le forme sarcastiche e stravaganti imaginate da Vito Timmel hanno qualche cosa di grandioso, di personale che merita l’attenzione del pubblico.

    La concezione trae la sua ispirazione dalla vita umana – potrebbe anche essere chiamata, balzacchianamente – una commedia umana perchè sono appunto le più dolorose e le più comiche cose di questa valle di lagrime che assurgono, qui, a intonazione essenziale dell’episodio.

    Bisognerebbe sentire Vito Timmel stesso parlare con quel suo simpatico dialetto triestino e spiegare, chiosando, comentando a modo suo la vastità del concepimento artistico-letterario !

    Il suo primo pannello rappresenta «Gli eroi» : gli episodi che lo formano sono campati nello spazio intorno a un albero sradicato che prende porte attiva al movimento generale in quanto anche la stessa vita vegetativa s’avvicina per molti contatti e per molti elementi a quella animale.

    La vita umana è lunga: ma può essere anche percorsa a scorciatoie: per arrivare più presto é più intensamente.

    In torno al primo uomo – che l’ha percorsa per intero e che per questo è rappresentato in esaurimento fisico e intellettuale: pelle ed ossa – s’affannano quegli esseri che, per arrivare, han perso l’andare coi loro coetanei e gli chiedon l’elemosina, come al più ricco, in quanto ha potuto e saputo percorrere la vita interamente.

    V’è la donna frivola che conta in un rosario di perle gli amanti che ha avuto: preziosi tutti perchè li ha lasciati senza rancore e senza felicità, v’è la donna senz’amore: una cosa brutta e ridicola, v’è la donna che non dà frutto: il ventre aperto e l’utero vuoto, v’è la donna triste rinchiusa in sè col rosario dei suoi 32 anni di vita: la prima perla, più lucente: la nascita, poi le altre sempre più scure, più nere fino all’ultima che dà il frutto: un puttino che le è accanto e chiude la tristezza inutile della sua vita.

    Il secondo pannello rappresenta «I felici» : non sono più episodi lanciati nello spazio: le loro figure p osano al suolo a rappresentare la: consistenza della gioia.

    E la concezione di Vito Timmel esprimerà – perchè il lavoro è solo in abbozzo – i felici con due esseri di sesso diverso che s’amano coi sensi e collo spirito; con la vergine, che desidera e aspetta; con la donna che per la prima volta ha goduto le gioie del senso; e con un uomo vecchissimo che gode nel veder nascere un bimbo.

    Questo pannello avrà uno spirito meno accademico e meno pesante del primo perchè sarà condotto con mezzi più moderni e più evoluti.

    Il terzo rappresenterà: «Gli ilari»: i pazzi nelle più svariate maniere della pazzia: sospesi negli spazi illuminati da una luce artificiale.

    Le rappresentazioni di questo pannello saranno date da una tavola rotonda in torno a cui stanno un padre una madre sorridente ed una figlia: i genitori addormentati per la incoscienza del loro animo nell’educare la bimba: questa inebriata a fissare un punto immobile: una stella: il centro dei suoi pensieri e dei suoi desiderio e incatenata, povera piccola anima dall’incoscienza di due esseri che non la comprendono.

    Il dramma di ogni famiglia borghese!

    Poi dagli spostati: marito e moglie – borghesemente chiamati.

    Due esseri negativi, sempre uniti dal primo contatto che non si dimentica.

    E il Timmel li concepisco e rappresenta capovolti l’un l’altro con le ultime falangi delle dita dei piedi fuse insieme.

    Infine dalla concezione di Don Chisciotte: la forma pazzesca, per eccellenza: col corpo staccato a metà non si sa per qual legge come non si sa per qual ragione sia pazzo.

    La composizione generale sarà rischiarata da una luce macabra ma ilare.

    Questa l’idea del ciclo ch’egli chiamerà ‘Gli episodi della vita’: idea d’un ardimento rocambolesco: una commedia umana rappresentata in una vasta forma di decorazione.

    Un’altra decorazione in cui l’individualità timmeliana ha avuto agio di estrinsecarsi largamente in una forma concreta ed applicata è quella che corre tutt’intorno la sala del Cinema Italia a Trieste.

    Qui v’è il concetto che informa tutta la tendenza decorativa di Vito Timmel: dare all’episodio concettuale la massima evidenza, tagliarlo fuori dalla tecnica stessa del lavoro: quasi scolpirlo balzante.

    Infatti la storia della letteratura mondiale – ch’egli ha voluto tracciare – è data e riassunta dalle semplici figure rappresentative con i loro caratteri con i loro elementi con la loro stessa essenza esagerati: Arlecchino, Sylock – il mercante di Venezia – Ellena del «Sogno di una notte di mezza estate», Cirano di Bergerac, un ronino giapponese ecc.

    Vito Timmel ha terminato da poco un altro grandioso lavoro di decorazione a cielo sul medesimo genere di questo del Cinema Italia: ed è la decorazione del teatro del Cantiere Navale di Monfalcone che i signori Cosulich gli hanno affidato.

    Il teatro è riuscito un lavoro molto ricco di decorazione pittorica ad encausto ed a vista: e il fregio della grande sala ha ben trenta figure che rappresentano la storia del teatro come soltanto la niente di Vito Timmel poteva concepire, mente fantastica, satirica e nel medesimo tempo, adusata a tutte le espressioni di una particolare stilizzazione dell’idea e della forma.

    Però, per quanto il lavoro assuma veramente un carattere di grandiosità e di originalità, tuttavia, sopratutto come diligenza di tecnica mi pare inferiore alla decorazione del Cinema Italia, che rimane pur sempre la prova principe della passione e dell’arte timmelliana.

    La critica non ha forse approvato questa tecnica decorativa del Timmel, ma ciò non toglie ch’egli persegua con ardore questi innovamenti della sua arte; anzi, partendo dal suo concetto di far scomparire la pennellata per dar luogo all’episodio egli sta facendo ora dei tentativi di un’arte applicata: mezzi semplici quasi primitivi: applicazione di altre materie – che non siano il colore come vernice o come pasta – stoffe, pietre preziose ecc., amorevolmente aiutato dalle gentili mani d’una compagna d’amore: Giulietta Tomè.

    I nostri antichi – egli mi dice mostrandomi alcuni cuscini fatti secondo questo Concetto d’arte applicata – erano uomini molto più decorativi di noi: non conoscevano i quadri incorniciati ma solo la massa decorativa: gli assiri con i loro fregi in ceramica, i greci e gli etruschi con la decorazione delle loro anfore e dei loro vasi, i romani con i magnifici encausti pompeiani, fino a Michelangelo che decorra, senza cornice, le pareti della Cappella Sistina.

    Il concetto della massa decorativa s’è perduto con Michelangelo: l’arte s’è ridotta al quadro, alla veduta, s’è impicciolita al «foro incorniciato» che, ciò non ostante, ha potuto essere ugualmente portato alla perfezione: una perfezione della cosa piccola: del «foro».

    Bisogna finirla con quest’arte vieta e misera del quadro esclama Vito Timmel – bisogna riprendere il vasto cammino dell’arte: bisogna che i bohèmiens dell’arte scompaiono perchè l’artista non deve e non può essere un bohèmien: deve essere ed è un signore, il vero signore; poichè solo l’artista è un uomo ricco nel più vasto senso della parola.

    E per farei vedere un giorno tutta questa ricchezza del suo livello d’artista, ammassata e raccolta, egli ha giurato a sè stesso di rinchiudersi per due anni nel suo lavoro – «Il mio studio deve rappresentare una placenta che darà il suo frutto maturissimo».

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